ono
sicuro vi sia
già capitata questa esperienza o qualcosa di simile. Siete seduti a pranzo in
un buon ristorante, magari un albergo. I camerieri vanno e vengono. Il cibo è
fantastico. La conversazione procede bene su tutti gli argomenti. Parlate del
tempo, di musica, cinema, salute, cose futili sui giornali, bambini e così via.
Ma poi la conversazione si sposta sull’economia e le cose cambiano.
Voi non siete il tipo
aggressivo, per cui non partite in quarta a proclamare i meriti del libero
mercato. Aspettate e lasciate che parlino gli altri. I loro pregiudizi sul
commercio si manifestano subito nella ripetizione delle più recenti calunnie
dei media contro il mercato: ad esempio quella secondo cui i gestori delle
pompe di benzina stiano causando inflazione, alzando i prezzi per riempire le
loro tasche a nostre spese, oppure la storia per cui Wal-Mart rappresenti,
naturalmente, la peggior cosa che possa mai capitare a una comunità.
Cominciate ad offrire un
correttivo, evidenziando l’altra faccia della medaglia. Ecco allora che la
verità emerge in forma di affermazione candida ma risoluta: “Beh, sinceramente
penso di essere un socialista in fondo al cuore”. Altri fanno cenno di essere
d’accordo.
Da una parte non c’è nulla che
si può dire, davvero. Siete circondati dalle benedizioni del capitalismo. Il
tavolo del buffet, che voi e i vostri commensali non avete dovuto far altro che
entrare nel ristorante per trovare, offre una maggior varietà di cibo ad un
prezzo più economico di quanto fosse disponibile ad ogni persona vivente – re,
signore, duca, plutocrate o Papa – lungo quasi tutta la storia del mondo.
Persino cinquant’anni fa non sarebbe stato immaginabile.
Tutta la storia è stata
definita dallo sforzo per procurarsi cibo. E, tuttavia, questa difficoltà è
stata eliminata, non solo per i ricchi ma per chiunque viva in paesi
dall’economia sviluppata. Gli antichi, osservando questa scena, avrebbero pensato
di trovarsi nell’Eliseo, le isole dei beati che accoglievano le anime di coloro
amati dagli déi. L’uomo medievale evocava scene simili solo nelle visioni di
Utopia. Persino sul finire del diciannovesimo secolo, il palazzo più dorato del
più ricco industriale richiedeva molto personale e enorme lavoro per arrivare
abbastanza vicino ad approssimare questa scena.
Dobbiamo questo al
capitalismo. In altri termini, dobbiamo questa scena a secoli di accumulo di
capitale nelle mani di persone libere, che hanno utilizzato capitale in
attività economiche innovative, competendo con altri per i profitti e al tempo
stesso collaborando con milioni e milioni di persone in una rete globale di
divisione del lavoro in continua espansione. I risparmi, gli investimenti, i rischi,
il lavoro di centinaia di anni e di innumerevoli uomini liberi sono serviti a
rendere possibile questa scena, grazie alla stupefacente capacità di una
società che si sviluppa in condizioni di libertà di raggiungere le maggiori
aspirazioni dei membri della società.
E, tuttavia, dall’altra parte
del tavolo sono sedute persone istruite che ritengono che la via per mettere
fine ai guai del mondo passi attraverso il socialismo. Ora, le definizioni di
socialismo differiscono e queste persone probabilmente sarebbero svelte ad
affermare che non intendono l’Unione Sovietica o niente del genere. Quello era
socialismo solo nel nome, mi direbbero. E se socialismo significa qualcosa
oggi, questo è immaginare che ci possa essere qualche progresso sociale
derivante dalla scelta politica di portare via capitale da mani private per
metterlo nelle mani dello stato. Altre tendenze del socialismo includono il
desiderio di vedere i lavoratori organizzati in classi e dotati di qualche
sorta di potere coercitivo su come usare la proprietà dei datori di lavoro.
Può
essere semplice come il desiderio di mettere un limite al salario degli
amministratori delegati o estremo come il desiderio di abolire tutta la
proprietà privata, il denaro e persino il matrimonio.
Qualunque
sia la specificità del caso in questione, socialismo significa sempre
sovrastare le decisioni libere degli individui e rimpiazzare quella capacità di
prendere decisioni con una dominante pianificazione statale. Portato avanti a
sufficienza, questo modo di pensare non comporterebbe semplicemente la fine di
pranzi opulenti. Significherebbe la fine di quello che tutti conosciamo come
civilizzazione stessa. Ci farebbe sprofondare indietro ad uno stato primitivo
di esistenza, a vivere di caccia in un mondo con poco di arte, musica, tempo
libero, o carità. Né è in grado, una qualunque forma di socialismo, di
provvedere ai bisogni dei sei miliardi di persone sulla Terra, quindi la
popolazione si ridurrebbe drammaticamente e rapidamente in una maniera tale che
farebbe sembrare lievi, al confronto, tutti gli orrori umani conosciuti.
Neppure è possibile separare il socialismo dal totalitarismo, perché se si è
seri riguardo al mettere fine alla proprietà privata dei mezzi di produzione,
occorre essere seri riguardo al metter fine anche alla libertà e alla
creatività. Si dovrebbe fare dell’intera società, o di quel che ne rimane, una
prigione.
In
breve, il desiderio di socialismo è un desiderio di disgrazia umana senza
uguali. Se lo comprendessimo appieno, nessuno in buona compagnia esprimerebbe
con leggerezza supporto per il socialismo. Sarebbe come dire che c’è qualcosa
di buono nella malaria e nel tifo e nel bombardare con bombe atomiche milioni
di innocenti.
Le
persone sedute all’altro lato del tavolo desiderano veramente questo?
Certamente no. Allora che cosa non è andato per il verso giusto? Perché queste
persone non riescono a vedere ciò che è ovvio? Perché persone che si trovano in
mezzo all’abbondanza creata dal mercato, godendo dei frutti del capitalismo
ogni minuto della loro vita, non riescono a vedere il merito del mercato ma
invece desiderano qualcosa che è un provato disastro?
Quello
che abbiamo qui è una mancata comprensione. In altre parole, una mancata
connessione di cause con effetti. Si tratta di un’idea interamente astratta. La
conoscenza di causa e effetto non arriva dal mero guardarsi attorno in una
stanza, dal vivere in un certo tipo di società o dall’osservare statistiche. Si
possono studiare montagne di dati, leggere mille trattati di storia o anche
guadagnarsi da vivere tracciando su grafici le cifre internazionali di prodotto
interno lordo e ancora la verità su causa ed effetto può restare elusiva.
Ancora si può non capire che è il capitalismo che fa crescere la prosperità e
la libertà. Ancora si può essere tentati dalla nozione secondo cui la salvezza
sia il socialismo.
Lasciate
che vi porti indietro nel tempo agli anni 1989 e 1990. Quelli furono gli anni
che la maggioranza di noi ricorda come il momento in cui nell’Europa dell’Est e
in Russia collassò il socialismo. Gli eventi di quel periodo furono uno
schiaffo per tutto il predicare della destra, per il quale quelli erano regimi
permanenti che non sarebbero mai cambiati, a meno di un bombardamento tale da
riportarli all’età della pietra. A sinistra, era opinione diffusa, persino in
quegli anni, che quelle società fossero in realtà benestanti e avrebbero alla
fine sorpassato in prosperità gli Stati Uniti e l’Europa occidentale e che, per
alcuni versi, già stessero meglio di noi.
E
tuttavia collassò. Persino il muro di Berlino, quel simbolo di oppressione e
schiavitù, fu tirato giù dalla gente stessa. Non solo fu grandioso vedere
collassare il socialismo: fu emozionante, da un punto di vista libertario,
vedere come gli stati stessi possono dissolversi. Possono avere tutte le armi e
tutto il potere e la gente non avere nulla di tutto ciò, eppure, quando la
gente stessa decide che non vuole più essere governata, lo stato resta senza
opzioni. Alla fine collassa tra un’intera società che rifiuta di credere ancora
alle sue bugie.
Quando
queste società chiuse, improvvisamente, sono diventate aperte, cosa abbiamo
visto? Abbiamo visto terre dimenticate dal tempo. La tecnologia era arretrata e
discontinua; il cibo era scarso e disgustoso; l’assistenza sanitaria era terribile;
la gente non era in buona salute; i beni erano inquinati. E’ stato
impressionante anche osservare cos’era successo alla cultura sotto il
socialismo. Molte generazioni erano cresciute in un sistema costruito su potere
e bugie e così l’infrastruttura culturale che consideriamo garantita non era
solida. Nozioni come “fiducia”, “promessa”, “verità”, “onestà” e “progetti per
il futuro” – tutti pilastri della cultura commerciale – erano diventate
distorte e confuse dall’ubiquità e dalla persistenza della piaga statalista.
Perché
mi soffermo su questi dettagli di quel periodo, che sicuramente tutti voi
ricordate? Semplicemente per dire questo: la maggioranza delle persone non ha
visto quello che avete visto voi. Voi avete visto il fallimento del socialismo.
Questo è quello che ho visto io. E’ quello che vide Rothbard. E’ quello che
chiunque si sia avvicinato agli insegnamenti dell’economia – alle regole
elementari delle relazioni di causa e effetto nella società – ha visto. Ma non
è quello che vide la sinistra ideologica. I titoli nelle pubblicazioni
socialiste stesse proclamarono la morte dello stalinismo antidemocratico e
guardarono con impazienza alla creazione di un nuovo socialismo democratico in
quei paesi.
Per
quanto riguarda la gente comune non associata all’idea socialista né istruita
in economia, può essere sembrato niente più che la gloriosa sconfitta dei
nemici della politica estera americana. Abbiamo costruito più bombe di loro,
così alla fine si sono arresi, allo stesso modo in cui i bambini gridano “tana”
quando giocano. Forse alcuni la videro come una vittoria della Costituzione
degli Stati Uniti su sistemi di dispotismo misteriosi e stranieri. O forse fu
una vittoria per la “libertà di espressione” sulla censura, oppure il trionfo
delle schede elettorali sulle pallottole.
Ora,
se avessimo tratto le giuste lezioni dal collasso, avremmo visto l’errore di
ogni forma di pianificazione governativa. Avremmo visto che una società
volontaria funziona sempre meglio di una società soggetta a coercizione. Potremmo
vedere quanto fragili e artificiali siano, in definitiva, tutti i sistemi di
statalismo in confronto alla robusta permanenza di una società basata sullo
scambio volontario e sulla proprietà capitalista. E c’è un altro punto: il
militarismo della guerra fredda aveva finito solamente per prolungare il
periodo del socialismo, fornendo a questi cattivi governi la possibilità di
stimolare sventurati impulsi nazionalistici che distraevano le popolazioni dal
problema reale. Non è stata la guerra fredda ad uccidere il socialismo; anzi,
una volta che la guerra fredda si era esaurita, questi governi sono collassati
per pressioni interne piuttosto che esterne.
In
breve, se il mondo avesse tratto le dovute lezioni da questi eventi, non ci
sarebbe più bisogno di insegnare l’economia e non ci sarebbe più bisogno della
parte più sostanziale di ciò che fa il Mises Institute. In un solo grande
momento della storia, la competizione tra capitalismo e pianificazione centrale
sarebbe stata risolta per sempre.
Devo
dire che fu veramente uno shock, per me e i miei colleghi, il fatto che per la
maggioranza della gente il messaggio economico essenziale andò perduto.
Davvero, fece pochissima differenza nello spettro politico. La competizione tra
capitalismo e pianificazione centrale continuò come sempre e persino si
intensificò qui negli Stati Uniti. I socialisti tra noi, se accusarono il
colpo, si riorganizzarono subito, forti come sempre, se non di più. Se avete
qualche dubbio, considerate che ci volle solo qualche mese prima che questi
gruppi cominciassero a lamentare l’orribile assalto scatenato dalla liberazione
del capitalismo nell’Europa dell’Est, in Russia e in Cina. Cominciammo a
sentire lamentele sull’insorgere di orrendo consumismo in questi paesi, sullo
sfruttamento dei lavoratori nelle mani dei capitalisti, sull’ascesa di vistosi
super-ricchi. Pile e pile di storie apparvero, sui media, sulle infelici
condizioni dei lavoratori statali disoccupati, i quali, sebbene fedeli ai
principi del socialismo per tutta la vita, ora finivano sulle strade e dovevano
arrangiarsi.
Neanche
un evento così spettacolare come il collasso spontaneo di una superpotenza e
degli stati alleati fu sufficiente a comunicare il messaggio di libertà
economica. E la verità è che un tale evento non era necessario. L’intero nostro
mondo pullula di lezioni sui meriti della libertà economica rispetto alla
pianificazione centrale. Le nostre vite di tutti i giorni sono caratterizzate
dai gloriosi prodotti del mercato, che tutti felicemente consideriamo garantiti.
Possiamo aprire i nostri web browser e visitare una civilizzazione elettronica
creata dal mercato, notando che il governo non ha mai fatto nulla di utile in
confronto.
Siamo
inondati quotidianamente anche dai fallimenti dello stato. Ci lamentiamo costantemente
che il sistema scolastico è scadente, che il settore medico è malignamente
distorto, che il servizio postale non è affidabile, che la polizia abusa dei
suoi poteri, che i politici ci hanno mentito, che i soldi delle tasse sono
rubati, che qualsiasi burocrazia con cui abbiamo a che fare è disumanamente
indifferente. Tutti notiamo questi fatti. Ma pochi sono in qualche modo capaci
di collegarli tra loro e vedere la miriade di modi in cui la vita quotidiana
conferma la correttezza del giudizio di pensatori radicalmente a favore del
mercato, come Mises, Hayek, Hazlitt e Rothbard.
Oltretutto,
questo non è un fenomeno recente che possiamo osservare solo ai nostri tempi.
Possiamo guardare ad ogni paese e ad ogni periodo e notare che tutta la
ricchezza creata nella storia dell’umanità è stata generata tramite qualche
tipo di attività di mercato e mai dai governi. La gente libera crea; gli stati
distruggono. Era vero nel mondo antico. Era vero nel primo millennio dopo
Cristo. Era vero nel Medio Evo e durante il Rinascimento. E con la nascita di
strutture di produzione complesse e l’incremento della divisione del lavoro,
vediamo come l’accumulo di capitale portò a quello che si può definire un
miracolo produttivo. La popolazione mondiale crebbe rapidamente. Si assistette
alla creazione della classe media. Si videro i poveri migliorare la propria
condizione e modificare la loro identificazione di classe.
La
verità empirica non è mai stata difficile da scoprire. Ciò che conta sono gli
occhi teorici che guardano. Sono questi a dettare le lezioni che traiamo dagli
eventi. Marx e Bastiat scrivevano nello stesso tempo. Il primo disse che il
capitalismo stava creando una calamità e che l’abolizione della proprietà era
la soluzione. Bastiat vide che lo statalismo stava creando una calamità e che
l’abolizione del saccheggio statale era la soluzione. Qual era la differenza
tra di loro? Essi videro gli stessi fatti ma li videro in modi molto diversi.
Avevano una percezione diversa di causa ed effetto.
Vorrei
proporvi l’idea che qui ci sia una lezione importante riguardo alla metodologia
delle scienze sociali, insieme ad una strategia per il futuro. Riguardo al
metodo, dobbiamo riconoscere che Mises aveva perfettamente ragione sulla
relazione tra fatti e verità economica. Se abbiamo una teoria solida in mente,
i fatti sul campo forniscono eccellente materiale illustrativo. Ci informano
sull’applicazione della teoria nel mondo in cui viviamo. Forniscono eccellenti
aneddoti e storie rivelatrici di come la teoria economica sia confermata nella
pratica. Ma se manca quella teoria economica, i fatti da soli non sono
null’altro che fatti. Non trasmettono alcuna informazione su causa ed effetto e
non indicano alcuna via da seguire.
Pensiamoci
in questo modo. Immaginiamo un sacchetto di biglie che viene rovesciato a
terra. Chiedete a due persone la loro impressione. La prima conosce cosa sono i
numeri, le forme e i colori. Questa persona può dare un resoconto dettagliato
di ciò che vede: quante biglie, di quale tipo, quanto sono grandi e questa
persona può spiegare quello che vede in modi diversi potenzialmente per ore. Ma
ora considerate la seconda persona, la quale, supponiamo, assolutamente non
conosce i numeri, neanche come idea astratta. Questa persona non comprende né
forme né colori. Vede la stessa scena che vede l’altra persona ma non può
fornire nulla che si avvicini ad una spiegazione di qualche regolarità. Ha
molto poco da dire; tutto quello che vede è una serie di oggetti casuali.
Entrambe queste persone vedono
gli stessi fatti. Però li concepiscono in modi molto diversi, a seconda delle
nozioni astratte sui significati nelle loro menti. E’ questo il motivo per cui
il positivismo come scienza pura, un metodo per assemblare una serie di dati
puntuali potenzialmente infinita, è un’impresa senza frutti. I dati, per sé
stessi, non comunicano alcuna teoria, non suggeriscono alcuna conclusione e non
offrono alcuna verità. Per arrivare alla verità occorre il passo più importante
che noi come esseri umani possiamo compiere: pensare. Attraverso il pensiero e
con buoni insegnamenti e letture, possiamo costruire un apparato teorico
coerente che ci aiuti a capire.
Ora,
per noi è difficile evocare in mente un uomo che non ha comprensione di numeri,
colori e forme. Tuttavia vorrei suggerire che è precisamente ciò che abbiamo
davanti quando incontriamo una persona che non ha mai riflettuto sulla teoria
economica e non ha mai studiato le implicazioni di questa scienza. I fatti del
mondo sembrano completamente casuali a questa persona. Egli vede due società
una di fianco all’altra, una libera e prospera, l’altra non libera e povera.
Egli le osserva e non conclude nulla di importante sui sistemi economici perché
non ha mai riflettuto a fondo sulla relazione tra sistemi economici e
prosperità e libertà.
Egli semplicemente accetta
l’esistenza di ricchezza in un posto e di povertà nell’altro come dato di
fatto, allo stesso modo in cui i socialisti a pranzo assumevano che l’ambiente
di lusso e il cibo erano presenti e basta. Forse giungerà a qualche tipo di
spiegazione, ma se manca lo studio dell’economia, è poco probabile che sia
quella corretta.
Ugualmente
pericoloso a non avere alcuna teoria è avere una teoria errata che non è
concepita tramite la logica bensì tramite una visione errata di causa ed
effetto. E’ il caso delle nozioni come la curva di Phillips, che assume che ci
sia una relazione di trade-off tra inflazione e disoccupazione. L’idea è che si
possa far calare la disoccupazione se si è disposti a tollerare alta
inflazione; oppure nell’altro senso: si possono stabilizzare i prezzi se si è
disposti a tollerare alta disoccupazione.
Ovviamente questo non ha alcun
senso a livello microeconomico. Quando l’inflazione galoppa, le imprese non
dicono d’un tratto: “Su, assumiamo un bel po’ di gente nuova!”; e neanche
dicono: “I prezzi che paghiamo per il magazzino non sono saliti oppure sono
scesi. Licenziamo qualche lavoratore!”.
Lo
stesso è vero per la macroeconomia. Essa è spesso trattata come una disciplina
completamente priva di connessione con la microeconomia o persino con le
decisioni umane. E’ come se entrassimo in un videogame in cui combattono fino
alla morte alcune spaventose creature chiamate Aggregati. Ecco una creatura che
si chiama Disoccupazione, una che si chiama Inflazione, una che si chiama
Capitale, una che si chiama Lavoratori e così via finché si può costruire un
gioco divertente che è pura fantasia.
Un
altro esempio risale proprio a qualche giorno fa. Uno studio recente ha
affermato che i sindacati aumentano la produttività delle aziende. Come hanno
fatto i ricercatori a giungere a questa conclusione? Hanno riscontrato che le
aziende sindacalizzate tendono ad essere più grandi e e a produrre
complessivamente di più rispetto alle aziende non sindacalizzate. Pensiamoci un
attimo.
E’
verosimile che proteggendo un gruppo di lavoratori da ogni competizione,
fornendo a quel gruppo ristretto di lavoratori il diritto di usare la violenza
per far rispettare il suo monopolio, permettendo a quel cartello di esigere
dall’azienda salari superiori ai valori di mercato e di fissare i propri
termini sulle regole di lavoro, ferie e benefit – è verosimile che questo porti
benefici all’azienda sul lungo termine? Dovreste venir meno ai vostri sensi per
crederlo.
In realtà, qui c’è una
semplice confusione di causa e effetto. Le aziende più grandi tendono ad
attrarre con maggiore probabilità, rispetto alle aziende più piccole, un tipo
di sindacalizzazione non prevenibile. I sindacati hanno nel mirino le aziende
grandi, con l’aiuto del governo federale. Non è né più né meno complicato di
così. E’ per la stessa ragione che nelle economie sviluppate lo stato sociale è
più ampio. I parassiti preferiscono ospiti più grandi, questo è tutto. Faremmo
un grosso errore se pensassimo che sia lo stato sociale a causare le economie
sviluppate. Sarebbe un errore logico dello stesso tipo di credere che indossare
abiti da 2.000 dollari faccia diventare ricchi.
Sono
convinto che Mises avesse ragione: il passo più importante che gli economisti o
le istituzioni economiche possono intraprendere è nella direzione di insegnare
al pubblico la logica economica.
Qui
c’è un altro importante fattore. Lo stato cresce vigorosamente se il pubblico è
ignorante in economia. E’ l’unico modo in cui può passarla liscia quando dà la
colpa dell’inflazione o della recessione ai consumatori, oppure quando proclama
che i problemi fiscali del governo sono dovuti al fatto che paghiamo troppo
poco in tasse. E’ l’ignoranza economica che permette alle agenzie regolatrici
di affermare di proteggerci quando ci negano la possibilità di scelta. E’ solo
tenendoci tutti all’oscuro che lo stato può continuare a lanciare guerra dopo
guerra, violando i diritti delle popolazioni estere e schiacciando le libertà
in patria, nel nome della “diffusione della libertà”.
C’è solo una forza che può
mettere fine ai successi dello stato: un pubblico istruito economicamente e
moralmente. Altrimenti, lo stato può continuare a diffondere le sue politiche
maligne e distruttive.
Ricordate
la prima volta che avete cominciato ad afferrare i fondamenti di economia? E’
un periodo molto emozionante. E’ come se qualcuno che vede poco mettesse gli
occhiali per la prima volta. Ci può consumare per settimane, mesi, anni.
Leggiamo un libro come Economics in One Lesson e
ci addentriamo con attenzione nelle pagine di Human Action e per la prima volta ci rendiamo
conto che tanto di quello che gli altri prendono per scontato non è vero e che
ci sono verità importanti riguardo al mondo economico da diffondere
urgentemente.
Considerando
un solo esempio, pensiamo al concetto di inflazione. Per la maggioranza,
l’inflazione è vista allo stesso modo in cui le società primitive potrebbero
aver visto l’insorgere di epidemie. Si tratta di qualcosa che dilaga fino a
causare ogni tipo di distruzione. I danni sono ben chiari ma l’origine non lo
è. Ognuno incolpa qualcun altro e nessuna soluzione sembra funzionare. Ma una
volta compresa la teoria economica, si comincia a vedere che il valore del
denaro è direttamente legato alla sua quantità e che solo una istituzione
possiede il potere di creare denaro dal nulla senza limiti: la banca centrale
connessa al governo.
La
teoria economica fa sì che allarghiamo le nostre menti e osserviamo il
commercio nella società da molti punti di vista differenti. Invece di guardare
agli eventi e ai fenomeni dalla prospettiva di un singolo consumatore o
produttore, cominciamo a vedere gli interessi di tutti i consumatori e di tutti
i produttori. Invece di pensare solo agli effetti a breve termine di certe
politiche, pensiamo al lungo termine e agli effetti secondari delle politiche
governative. Questa è l’essenza della lezione di Hazlitt nel suo celebre libro.
Per
chi conosce la teoria economica e ha assorbito le sue lezioni essenziali, il
mondo intorno a noi diventa vivido e chiaro e certi imperativi morali diventano
impellenti. Sappiamo che il commercio merita difesa. Vediamo gli imprenditori
come grandi eroi. Abbiamo simpatia per la situazione dei produttori. Vediamo i
sindacati non come difensori di diritti ma come cartelli privilegiati che
escludono la gente che ha bisogno dal mercato del lavoro; vediamo le
regolamentazioni non come protezione del consumatore ma come imbrogli per
aumentare i costi, ottenuti dalle pressioni di alcuni produttori per
danneggiare i concorrenti o altri produttori; vediamo le norme antitrust non
come una salvaguardia contro gli eccessi delle grandi aziende ma come una clava
ad uso dei potenti contro i concorrenti più in gamba.
In
breve, la teoria economica ci aiuta a vedere il mondo quale è. E il suo
contributo non è nella direzione di assemblare sempre più fatti, bensì di
facilitare il processo di accordare i fatti in una teoria coerente del mondo.
Questa è l’essenza del nostro lavoro al Mises Institute: educare e fornire un
metodo sistematico per capire il mondo quale è. Il nostro campo di battaglia
non sono i tribunali, né le elezioni, né la presidenza né la legislatura e
sicuramente non la perfida arena delle pressioni politiche. Il nostro campo di
battaglia riguarda un ambito dell’esistenza che è più potente sul lungo
termine. Riguarda le idee degli individui su come funziona il mondo.
Mentre
invecchiamo e vediamo sempre più nuove generazioni che arrivano dietro di noi,
siamo spesso colpiti da una grande verità: la conoscenza in questo mondo non è
cumulativa nel tempo: quello che una generazione ha imparato e assorbito non è
trasmesso alla prossima generazione in qualche modo attraverso la genetica o
l’osmosi. Occorre insegnare dal principio ad ogni generazione: la teoria
economica, mi dispiace dover riportare, non è scritta nei nostri cuori. Il
processo di scoperta della scienza economica è stato molto lungo. Ma ora che
noi la conosciamo, deve essere trasmessa – e, in questo senso, è come la
capacità di leggere o di capire la grande letteratura. E’ un dovere della
nostra generazione insegnare alla prossima generazione.
E
qui non stiamo semplicemente parlando di conoscenza fine a se stessa. Quello
che è in gioco è la nostra prosperità. E’ il nostro standard di vita. E’ il
benessere dei nostri figli e di tutta la società. Sono la libertà e la crescita
della civiltà ad essere in bilico. Se cresceremo e prospereremo e creeremo,
oppure appassiremo e moriremo e perderemo tutto quello che abbiamo ereditato,
in definitiva dipende dalle idee astratte che abbiamo riguardo alle relazioni
di causa e effetto nella società. Di solito queste idee non arrivano solo dalla
pura osservazione; devono essere insegnate e spiegate.
Articolo pubblicato da Lew Rockwell su lewrockwell.com
Riproduzione parziale.
Traduzione di Maria Missiroli. Tratto da Von Mises Italia
Articolo pubblicato da Lew Rockwell su lewrockwell.com
Riproduzione parziale.
Traduzione di Maria Missiroli. Tratto da Von Mises Italia
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