Articolo apparso originariamente su The Fielder
L’immagine
è quella di un uomo che spacca un telaio meccanico con un martello, nel 1768.
Circa duecentocinquant’anni dopo, l’immagine è quella di un tassista che
sciopera a Milano e che vorrebbe tanto spaccare tutti gli smartphone del Paese.
In comune vi è il rifiuto cronico di ogni innovazione tecnologica e
l’incapacità – più o meno colpevole – di stare al passo coi tempi e di
accettare che il mercato cambia con il cambiare della società.
Quando
una intera categoria di professionisti scende in piazza compatta per chiedere
al Legislatore di bloccare il progresso che impedisce loro di lavorare come un
tempo, si comprendono essenzialmente due cose: la prima è che quella categoria
ha buoni motivi di credere che il legislatore interverrà a tutelare interessi
corporativisti, visto che esistono innumerevoli precedenti; la seconda è che
quella categoria è stata incapace di evolversi, ma non perché composta da
stupidi, ma perché non ha mai temuto di perdere il primato nella fornitura di
un certo servizio.
Ciò
premesso, si comprendono anche le ragioni per cui i tassisti sono scesi in
piazza a protestare contro Uber, e non certo per la prima volta.
Uber
offre la possibilità di prenotare vetture con autista sfruttando una semplice
app e, già prima delle proteste dei tassisti, era attiva in molte grandi città
del mondo proprio grazie alla sua struttura digitale e all’autonomia dei
singoli autisti. L’ulteriore evoluzione di Uber, ancora più dolorosa per i
tassisti, è stata Uber Pop, cioè il servizio low cost al quale può accedere
chiunque. In sostanza, ci si candida sul sito di Uber come autista (rispettando
requisiti minimi di sicurezza) e si può diventare autisti, lavorando con la
propria auto.
Uber
comunque non arriva impreparata sul mercato, né ha inventato qualcosa di nuovo.
Basta una rapidissima ricerca su google per rendersi conto che nelle principali
città italiane esistono già servizi di car sharing e che sono sempre più
richiesti.
Le
ragioni dell’evoluzione del mercato dello sharing sono non soltanto nella digitalizzazione
della società ma soprattutto nell’impoverimento
della stessa.
Internet
ci sta dando l’illusione di vivere in una società avanzatissima dove non
esistono più differenze tra ricchi e poveri, perché internet costa poco ed
offre servizi gratuiti ai quali può accedere anche un bambino senza un soldo.
Non possiamo nascondere, però, che la tassazione sempre più pesante sta
rendendo difficile a tutti mantenere la proprietà di un’auto o di una casa o
acquistare beni costosi dei quali si farebbe un uso non molto frequente.
Se
un tempo l’auto poteva facilitare il lavoro di un professionista e dunque
contribuire al suo profitto, oggi è più
che altro un peso morto poiché il suo mantenimento è eccessivamente oneroso. Lo
stesso dicasi per la casa di proprietà, che da lusso è divenuto onere, perché
non produce alcuna rendita finché ci vivi all’interno.
E’
sorta dunque la necessità di rendere più utile il possesso di certi beni, e lo
sharing ne è la risposta. Lo sharing
permette al consumatore di diventare fornitore di un servizio sfruttando beni e
capacità di cui già dispone. Abbatte la barriera che le corporazioni hanno
tentato di mettere all’ingresso di taluni mercati ove i servizi offerti erano
di così bassa specializzazione da poter essere offerti da qualunque privato.
Ormai
la stragrande maggioranza della popolazione adulta sa guidare un’auto, dunque
il mestiere del tassista diviene obsoleto quanto quello dello scrivano
medievale. Se un tassista vuole continuare a guadagnare, dunque, deve giocare
innanzitutto sulla facilità di reperibilità e sui costi del servizio:
elementare, Watson. In altre parole, deve far in modo che io scelga di andare a
Roma usando il treno, e poi spostarmi in città usando un taxi, piuttosto che farmi
l’intero viaggio in auto per poterla poi sfruttare anche in città. E tutto questo devo poterlo pianificare in
dieci secondi su una app.
I
tassisti italiani avrebbero potuto prendere subito il monopolio della fornitura
di questo servizio, creando un sistema simile ad Uber per organizzarsi, o
unendosi proprio ad Uber. Invece, per anni, hanno tentato di calciare via il
barattolo ricorrendo all’intervento del Legislatore per mantenere la
distinzione tra consumatore e fornitore del servizio.
Il
discorso, comunque, potrebbe essere esteso a qualunque servizio poco
specializzato o non specializzato: giardinaggio, babysitting, lavori in casa,
assistenza informatica, persino piccole riparazioni ad auto o altri mezzi, e
via dicendo. Qualunque cosa sappiate fare e che potete fare con mezzi poco
costosi, può diventare un business sfruttando internet ed offrendovi di farlo a
chi ne ha bisogno. Tutto sta nella facilità con cui utente finale e fornitore
possono incontrarsi, e le app come quella di Uber sono la risposta.
Non
è dunque utopico pensare che in futuro ogni nostra passione possa diventare un
business grazie a semplici app, e che dunque
sempre più categorie di professionisti (che di specializzato hanno sempre
meno) diventeranno obsolete e andranno
scomparendo. Grazie ad internet, per fare un ulteriore esempio, ragazzi di
neanche diciott’anni imparano come smontare e rimontare un motorino, rendendo
del tutto inutile il ricorso ad un meccanico: se un ragazzo di sedici anni può
riparare uno scooter per 10 o 20 euro perché per lui è un divertimento, il
meccanico non sarà più conveniente. Quello che doveva essere solo un
consumatore (ragazzo di 16 anni) diventa improvvisamente fornitore di servizio
(riparazione scooter), e se dai a questo ragazzo una app che lo mette in
collegamento con chiunque abbia uno scooter rotto nei dintorni, quel ragazzo asfalterà tutti i meccanici
della zona.
I
più accorti obietteranno che un meccanico iscritto all’albo o un tassista
professionista potranno essere citati in giudizio in caso di danni o comunque
hanno obbligo di garantire alcuni standard di qualità. E’ vero, ma una causa
civile è lenta e costosa, dunque ci sarà sempre chi preferisce rischiare
affidandosi al servizio di un amatoriale che può offrire lo stesso servizio a
prezzi molto più bassi. E se parliamo di una società dove la classe media vive
con standard di vita che altrove sono considerati da lower class, allora
comprendiamo come questo rischio sarà la scelta comune di moltissimi.
Ora,
tornando al punto focale della questione: cosa accadrà con Uber? Cosa farà il
governo?
Semplicemente
farà due calcoli. Dovrà capire quanto sia esteso il fenomeno car sharing,
poiché ogni utente ed ogni fornitore in questo mercato sono degli elettori uniti
da un medesimo interesse, dunque una lobby. Se questa lobby risulta essere più
grande (=portare più voti) dei tassisti, il governo non farà nulla.
Non
ci è possibile quantificare il fenomeno in termini numerici esatti, ma come già
detto, una ricerca su google può dare l’impressione di quanto si stia
estendendo e di quanto potenziale abbia.
I
tassisti, dal canto loro, sono ancora in tempo per tirare la testa fuori dalla
sabbia e seguire l’antico mantra: se non puoi sconfiggere un nemico, unisciti a
lui.
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