domenica 25 maggio 2014

Uber e il neoluddismo d’un Paese in fuga dalla realtà

Articolo apparso originariamente su The Fielder


L’immagine è quella di un uomo che spacca un telaio meccanico con un martello, nel 1768. Circa duecentocinquant’anni dopo, l’immagine è quella di un tassista che sciopera a Milano e che vorrebbe tanto spaccare tutti gli smartphone del Paese. In comune vi è il rifiuto cronico di ogni innovazione tecnologica e l’incapacità – più o meno colpevole – di stare al passo coi tempi e di accettare che il mercato cambia con il cambiare della società.



Quando una intera categoria di professionisti scende in piazza compatta per chiedere al Legislatore di bloccare il progresso che impedisce loro di lavorare come un tempo, si comprendono essenzialmente due cose: la prima è che quella categoria ha buoni motivi di credere che il legislatore interverrà a tutelare interessi corporativisti, visto che esistono innumerevoli precedenti; la seconda è che quella categoria è stata incapace di evolversi, ma non perché composta da stupidi, ma perché non ha mai temuto di perdere il primato nella fornitura di un certo servizio.



Ciò premesso, si comprendono anche le ragioni per cui i tassisti sono scesi in piazza a protestare contro Uber, e non certo per la prima volta.

Uber offre la possibilità di prenotare vetture con autista sfruttando una semplice app e, già prima delle proteste dei tassisti, era attiva in molte grandi città del mondo proprio grazie alla sua struttura digitale e all’autonomia dei singoli autisti. L’ulteriore evoluzione di Uber, ancora più dolorosa per i tassisti, è stata Uber Pop, cioè il servizio low cost al quale può accedere chiunque. In sostanza, ci si candida sul sito di Uber come autista (rispettando requisiti minimi di sicurezza) e si può diventare autisti, lavorando con la propria auto.

Uber comunque non arriva impreparata sul mercato, né ha inventato qualcosa di nuovo. Basta una rapidissima ricerca su google per rendersi conto che nelle principali città italiane esistono già servizi di car sharing e che sono sempre più richiesti.



Le ragioni dell’evoluzione del mercato dello sharing sono non soltanto nella digitalizzazione della società ma soprattutto nell’impoverimento della stessa.

Internet ci sta dando l’illusione di vivere in una società avanzatissima dove non esistono più differenze tra ricchi e poveri, perché internet costa poco ed offre servizi gratuiti ai quali può accedere anche un bambino senza un soldo. Non possiamo nascondere, però, che la tassazione sempre più pesante sta rendendo difficile a tutti mantenere la proprietà di un’auto o di una casa o acquistare beni costosi dei quali si farebbe un uso non molto frequente.

Se un tempo l’auto poteva facilitare il lavoro di un professionista e dunque contribuire al suo profitto, oggi  è più che altro un peso morto poiché il suo mantenimento è eccessivamente oneroso. Lo stesso dicasi per la casa di proprietà, che da lusso è divenuto onere, perché non produce alcuna rendita finché ci vivi all’interno.

E’ sorta dunque la necessità di rendere più utile il possesso di certi beni, e lo sharing ne è la risposta. Lo sharing permette al consumatore di diventare fornitore di un servizio sfruttando beni e capacità di cui già dispone. Abbatte la barriera che le corporazioni hanno tentato di mettere all’ingresso di taluni mercati ove i servizi offerti erano di così bassa specializzazione da poter essere offerti da qualunque privato.

Ormai la stragrande maggioranza della popolazione adulta sa guidare un’auto, dunque il mestiere del tassista diviene obsoleto quanto quello dello scrivano medievale. Se un tassista vuole continuare a guadagnare, dunque, deve giocare innanzitutto sulla facilità di reperibilità e sui costi del servizio: elementare, Watson. In altre parole, deve far in modo che io scelga di andare a Roma usando il treno, e poi spostarmi in città usando un taxi, piuttosto che farmi l’intero viaggio in auto per poterla poi sfruttare anche in città. E tutto questo devo poterlo pianificare in dieci secondi su una app.



I tassisti italiani avrebbero potuto prendere subito il monopolio della fornitura di questo servizio, creando un sistema simile ad Uber per organizzarsi, o unendosi proprio ad Uber. Invece, per anni, hanno tentato di calciare via il barattolo ricorrendo all’intervento del Legislatore per mantenere la distinzione tra consumatore e fornitore del servizio.



Il discorso, comunque, potrebbe essere esteso a qualunque servizio poco specializzato o non specializzato: giardinaggio, babysitting, lavori in casa, assistenza informatica, persino piccole riparazioni ad auto o altri mezzi, e via dicendo. Qualunque cosa sappiate fare e che potete fare con mezzi poco costosi, può diventare un business sfruttando internet ed offrendovi di farlo a chi ne ha bisogno. Tutto sta nella facilità con cui utente finale e fornitore possono incontrarsi, e le app come quella di Uber sono la risposta.



Non è dunque utopico pensare che in futuro ogni nostra passione possa diventare un business grazie a semplici app, e che dunque sempre più categorie di professionisti (che di specializzato hanno sempre meno) diventeranno obsolete e andranno scomparendo. Grazie ad internet, per fare un ulteriore esempio, ragazzi di neanche diciott’anni imparano come smontare e rimontare un motorino, rendendo del tutto inutile il ricorso ad un meccanico: se un ragazzo di sedici anni può riparare uno scooter per 10 o 20 euro perché per lui è un divertimento, il meccanico non sarà più conveniente. Quello che doveva essere solo un consumatore (ragazzo di 16 anni) diventa improvvisamente fornitore di servizio (riparazione scooter), e se dai a questo ragazzo una app che lo mette in collegamento con chiunque abbia uno scooter rotto nei dintorni, quel ragazzo asfalterà tutti i meccanici della zona.



I più accorti obietteranno che un meccanico iscritto all’albo o un tassista professionista potranno essere citati in giudizio in caso di danni o comunque hanno obbligo di garantire alcuni standard di qualità. E’ vero, ma una causa civile è lenta e costosa, dunque ci sarà sempre chi preferisce rischiare affidandosi al servizio di un amatoriale che può offrire lo stesso servizio a prezzi molto più bassi. E se parliamo di una società dove la classe media vive con standard di vita che altrove sono considerati da lower class, allora comprendiamo come questo rischio sarà la scelta comune di moltissimi.



Ora, tornando al punto focale della questione: cosa accadrà con Uber? Cosa farà il governo?

Semplicemente farà due calcoli. Dovrà capire quanto sia esteso il fenomeno car sharing, poiché ogni utente ed ogni fornitore in questo mercato sono degli elettori uniti da un medesimo interesse, dunque una lobby. Se questa lobby risulta essere più grande (=portare più voti) dei tassisti, il governo non farà nulla.

Non ci è possibile quantificare il fenomeno in termini numerici esatti, ma come già detto, una ricerca su google può dare l’impressione di quanto si stia estendendo e di quanto potenziale abbia.

I tassisti, dal canto loro, sono ancora in tempo per tirare la testa fuori dalla sabbia e seguire l’antico mantra: se non puoi sconfiggere un nemico, unisciti a lui.

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